Di Sandro Fuzzi – Consiglio Nazionale delle Ricerche, membro IPCC e Presidente del Clust-ER Greentech.
Gli antefatti della COP26
L’Accordo di Parigi sul clima è stato firmato 12 dicembre 2015, nell’ambito della XXI Sessione della Convenzione Quadro sul Clima dell’ONU (UNFCCC). 196 Paesi, responsabili del 95% delle emissioni di gas serra globali, hanno approvato questo documento che costituiva la prima intesa universale e giuridicamente vincolante per limitare le emissioni di gas serra e gli effetti del riscaldamento sull’ambiente globale.
L’obiettivo di lungo periodo dell’Accordo di Parigi era di contenere l’incremento della temperatura media globale sotto i 2°C rispetto ai livelli pre-industriali e cercare di limitarlo a 1.5°C, riconoscendo che ciò ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti del cambiamento climatico sull’ambiente e sulla vita stessa.
Fra i punti più importanti dell’Accordo, vi erano: piani di riduzionE delle emissioni decisi da ogni paese (Nationally Determined Contributions, NDC) da aggiornare periodicamente; il traguardo “zero carbonio” per la fine del secolo corrente; aiuti finanziari ai paesi meno sviluppati per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione; il supporto finanziario per le misure di adattamento dei Paesi vulnerabili agli effetti del riscaldamento climatico.
Le basi scientifiche per l’Accordo di Parigi erano state fornite dal 5° Rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo incaricato dalle Nazioni Unite di valutare, attraverso rapporti a scadenza regolare, gli aspetti scientifici del cambiamento climatico, i suoi impatti e le opzioni per la mitigazione e l’adattamento.
Il 5° Rapporto IPCC aveva espresso due punti chiave principali:
- Il riscaldamento del clima della Terra è inequivocabile;
- È provata l’influenza delle attività dell’uomo sul sistema climatico terrestre.
Dopo la fase più critica dell’epidemia COVID-19, e in ritardo di un anno rispetto alla tempistica decisa nel 2015, il “primo tagliando” dell’Accordo di Parigi è stato fatto alla COP26 che si è svolta a Glasgow all’inizio di novembre 2021, co-organizzata dai governi britannico e italiano.
Anche in questo caso, questo importante consesso si è avvalso delle risultanze del 6° Rapporto IPCC, presentato ad agosto 2021, in cui, riconfermando i risultati del 5° Rapporto, si precisa anche che:
- È indiscutibile che siano le attività umane a causare il cambiamento climatico, rendendo gli eventi climatici estremi, tra cui ondate di calore, piogge intense e fenomeni siccitosi, più frequenti e gravi;
- Il cambiamento climatico sta già colpendo ogni regione della Terra, in molteplici modi;
- Gli effetti del cambiamento climatico che già vediamo aumenteranno con l’ulteriore riscaldamento;
- In assenza di riduzioni immediate, rapide e su larga scala delle emissioni di gas serra, limitare il riscaldamento a 1,5°C sarà fuori portata.
Accordi sul clima: la COP26
Il 13 novembre 2021 i rappresentanti di quasi 200 paesi hanno firmato il testo di un nuovo accordo chiamato Patto di Glasgow per il Clima.
Il documento stabilisce che il primo passo per rimanere entro i limiti di riscaldamento del clima di 1.5°C, le emissioni di gas serra a livello globale nel 2030 dovranno essere del 45% inferiori rispetto ai livelli del 2010.
La figura qui sotto mostra l’andamento delle emissioni globali delle emissioni di CO2 da sorgenti fossili negli ultimi decenni espresse in miliardi di tonnellate per anno. Come si vede, neppure eventi epocali come la dissoluzione dell’Unione Sovietica o la crisi finanziaria del 2008, e finanche la pandemia COVID-19 con i lockdown generalizzati a livello mondiale nel 2020, hanno interrotto l’aumento delle emissioni clima-alteranti.
È però stato al contempo evidenziato come le attuali misure di riduzione proposte dai singoli paesi (NDC) porterebbero nel 2030 ad emissioni clima-alteranti del 14% maggiori rispetto ai livelli del 2010. Di qui la necessità di un impegno pressante per tutti i paesi di proporre ulteriori misure di riduzione delle emissioni molto più incisive, che andranno verificate a scadenza annuale. Il tutto quindi è stato rimandato alla COP27 del prossimo anno che si svolgerà in Egitto.
In ogni caso, un’analisi pubblicata sul sito Climate Action Tracker ha valutato che con gli attuali impegni presentati dai singoli paesi la temperatura media globale della Terra salirà alla fine del secolo di 2.4°C rispetto al periodo pre-industriale, ben oltre quindi il limite massimo stabilito dall’Accordo di Parigi.
Le conclusioni della COP 26 sono state commentate da più parti, sia dai singoli governi che da organizzazioni non governative che da singoli scienziati, politici e cittadini, con toni, critiche e valutazioni le più diverse.
Non si può infatti essere soddisfatti dei risultati del Patto per il Clima di Glasgow, dove ogni Paese ha avanzato le sue priorità che sono le più diverse e contrastanti fra loro, dalle Isole del Pacifico che corrono il rischio di essere sommerse dall’innalzamento del livello del mare, all’Arabia Saudita che ricava dalla vendita del petrolio l’80% delle proprie entrate, solo per fare un esempio.
Deve essere ben chiaro a tutti comunque che quando si dice che il riscaldamento del clima mette in pericolo il pianeta, si dice in realtà solo una mezza verità. Infatti, la Terra ha visto nei suoi circa 4.5 miliardi di anni di vita cambiamenti di ben altra natura; ciò su cui si sorvola è invece che ad essere in pericolo è la nostra specie, i colonizzatori della Terra. La nostra vita, la vita di tutti gli abitanti del pianeta, è basata infatti su una serie di risorse, alimentari, minerali, energetiche che in caso di un ulteriore riscaldamento del clima diventeranno enormemente difficili da gestire.
Il contrasto al cambiamento climatico non sarà certamente un “pranzo di gala”, vi saranno vincenti e perdenti, come in ogni passaggio della nostra storia in cui si verificano cambiamenti epocali, ed è chiaramente in capo ai governi di tutti i paesi la responsabilità di gestire la compatibilità sociale di una transizione verso la futura società zero-carbon. Questo sia all’interno di ogni paese che anche fra Paesi diversi.
Un equilibrio che non si trova
Uno dei punti chiave del dibattito di Glasgow ha riguardato appunto i criteri di equità fra i paesi. Occorre infatti ricordare che i paesi industrializzati sono responsabili di più del 50% delle emissioni di gas serra dall’inizio dell’era industriale a oggi e solo negli ultimi decenni le economie emergenti hanno iniziato a contribuire sostanzialmente alle emissioni globali di gas serra, con la Cina divenuta solo nei primi anni di questo secolo il principale responsabile delle emissioni di CO2 (ca. 31% del totale mondiale), sorpassando gli Stati Uniti che erano stati fino ad allora i primi in questa non invidiabile graduatoria come si vede nella figura qui sotto che riporta l’andamento dal 1960 ad oggi delle emissioni di CO2 (in miliardi di tonnellate annue) da sorgenti fossili da parte dei primi sei “paesi emettitori” globali e dove l’Europa a 27 è considerata come una unica entità.
Tuttora comunque gli Stati Uniti detengono ancora il discutibile primato a livello di emissioni pro-capite, come si vede nella figura sotto.
Non è quindi un caso che l’India, le cui emissioni pro-capite sono di ben otto volte inferiori a quelle degli Stati Uniti e di più di due volte rispetto alla media mondiale di 4.5 tonnellate di CO2 per persona, abbia posto un veto all’abbandono del carbone come risorsa energetica, chiedendo la sostituzione nel testo del Patto di Glasgow del termine phase out (eliminazione) con un più blando phase down (riduzione).
I paesi in via di sviluppo hanno anche lamentato la mancata mobilizzazione a loro favore da parte dei paesi più ricchi dei 100 miliardi di dollari annui promessi nell’ambito dell’accordo di Parigi per supportarli nella fase di progressiva eliminazione dei combustibili fossili. Questo impegno è stato ribadito (a partire però dal 2023), ma deve essere chiaro che i trasferimenti necessari verso i paesi in via di sviluppo, se si vorrà davvero mantenere l’incremento della temperatura entro 1.5 °C, dovranno essere ben più corposi, fino a più di dieci volte la cifra stabilita. Su questo a Glasgow è stato quindi fatto ben poco.
Uno dei problemi che hanno fino ad ora frenato ogni sforzo di mitigazione efficace del riscaldamento climatico è che si richiede al cittadino in ogni paese di pagare oggi per le opere necessarie rispetto a benefici per le future generazioni (solidarietà intergenerazionale), e non tutti sono ancora disposti a questo, come pure alla necessaria solidarietà fra le nazioni tecnologicamente evolute e quelle più povere.
La politica ha infatti tempi caratteristici di pochi anni (una legislatura) che male si accordano con un fenomeno come il cambiamento climatico che si sviluppa su scale di decenni. Deve essere però ben chiaro che la portata globale del riscaldamento climatico non risparmierà nessun Paese, come bene evidenziato dal 6° Rapporto IPCC, e nessuno può sentirsi al sicuro dai suoi effetti. Motivo di riflessione deve anche essere il fatto, già acclarato da molti qualificati studi, che i danni a lungo termine conseguenti al riscaldamento climatico comporteranno costi molto maggiori rispetto ai costi di mitigazione necessari per limitare il riscaldamento.
Una considerazione finale
La vignetta qui sotto, apparsa sui quotidiani statunitensi lo scorso anno, evidenzia con efficacia come la preoccupazione che ognuno di noi ha in questo momento per i pericoli conseguenti alla pandemia COVID-19 in atto e per le sue ricadute economiche non debba farci dimenticare il problema dei problemi che oggi abbiamo di fronte, il cambiamento climatico. Infatti, con l’ampia disponibilità dei vaccini che si sta verificando, prima o poi il COVID-19 sarà debellato e anche la recessione economica sarà senz’altro superata; per il cambiamento climatico e le sue conseguenze invece non abbiamo tuttora nessun “antidoto” che non sia, per usare le parole dell’ultimo Rapporto IPCC “… riduzioni forti, rapide e sostenute delle emissioni clima alteranti”.
Ne saremo capaci? Come cantava Lucio Battisti “…lo scopriremo solo vivendo…”